IWI DESERT EAGLE .50AE vs RUGER SUPER RED HAWK .44 MAGNUM

IWI DESERT EAGLE .50AE vs RUGER SUPER RED HAWK .44 MAGNUM

IWI Desert Eagle .50AE e Ruger Super Red Hawk .44 Magnum sono armi dall’aspetto impressionante ma, in molti casi, chi le possiede non le sottopone ad un utilizzo intenso in poligono. Strumenti di tiro od oggetti da collezione? Da una discussione tra amici è nata l’idea di una prova particolare, dai risvolti inaspettati.

Di G.Tansella ed A.Wicks

Ci sono molte armi che, in determinati contesti, diventano semplici oggetti d’attrazione per appassionati o curiosi: nulla di male in tutto questo ma è lecito chiedersi se il collezionismo sia l’obiettivo di una scelta ponderata oppure, al contrario, si possa considerare penultima tappa di un percorso che parte dal desiderio di essere appagati nella pratica del tiro, diventa tortuoso in ragione di sopraggiunti elementi non previsti e si esaurisce, spesso, in una cessione.

Quali sono i reali motivi che inducono l’appassionato della pratica del tiro a riporre in semplice custodia armi capaci di esprimere un potenziale notevole sulle linee di tiro e, di conseguenza, garantire al tiratore molte soddisfazioni?

Dal nostro personale punto di vista questo fenomeno, piuttosto diffuso in Italia, è riconducibile al fatto che il tiro alla sagoma con pistola, così come concepito e praticato sul continente americano, non è praticabile presso la maggior parte dei poligoni. Mancanza di strutture adeguate? Non sempre…a volte manca giusto un po’ di fantasia, di lungimiranza…e di buona volontà.

Abbiamo dunque deciso di approfittare di una visita in Val Trompia per effettuare un esperimento curioso: organizzare una sessione di tiro a lunga distanza per confrontare, ai 150m, una Desert Eagle ed un revolver Super Red Hawk della Ruger. Il motivo di questa iniziativa? Semplicissimo: dimostrare che queste due belle armi, se il contesto è favorevole, possono essere davvero divertenti.

Ruger Super Red Hawk .44 Remington Magnum

Il revolver Ruger modello Super Red Hawk calibro .44 Magnum è un prodotto che gode di una certa diffusione, soprattutto in Nord America, in ragione di eccellenti doti quali l’affidabilità, la robustezza e il prezzo di vendita contenuto.

L’esemplare in nostro possesso, allestito con una canna lunga 7 ½ pollici, rappresenta la componente sportiva di una gamma di revolver piuttosto ampia, idonea cioè a soddisfare tanto i tifosi del tiro sportivo quanto le persone in cerca di un’arma corta di grande potenza con la quale difendersi o, in ultimo, cacciare.

In generale il minimo comun denominatore dei modelli appartenenti a questa serie hanno un telaio di grandi dimensioni scomposto in quattro pezzi, corpo principale con appendice impugnatura, canna avvitata al suo interno, semi-telaio con tamburo e sotto-guardia amovibile.

Quest’ultima ospita i principali meccanismi di scatto e ripetizione ed è vincolata al fusto da un dente fisso nella parte anteriore e da uno mobile nella parte posteriore.
Il “pacchetto” comprende così la leva di comando costituita dalla pala del grilletto alla quale sono imperniate le appendici mobili che garantiscono la rotazione del tamburo, il suo blocco, il disinserimento della sicura.

La parte superiore del grilletto, lavorata superiormente a formare una “C”, consente di tirare in singola azione quando il cane è armato manualmente ed in doppia azione quando si utilizza invece il solo grilletto per armare e liberare il cane senza che vi sia soluzione di continuità nel moto di azionamento.

Il tamburo con il suo supporto si innesta invece nel telaio ed è trattenuto dal pacchetto di scatto, la cui appendice anteriore si impegna nel recesso ricavato per tornitura sull’albero di rotazione del tamburo. Fondamentale, in un’arma in cui la camera di scoppio non è ricavata dallo stesso solido della canna, è l’ottenimento della perfetta interazione tra fusto e tamburo.

Nel caso della Super Red Hawk, come in altri revolver Ruger, tre sono i componenti che bloccano il tamburo in perfetto allineamento con il cono di forzamento ed in perfetto assetto: gli americani li chiamano “three locking points” (lett. tre punti di tenuta) e sono costituiti dalla sede del perno di rotazione del tamburo, dal dente di blocco inferiore comandato dal grilletto e, infine, dalla leva di contrasto a molla che sporge dalla sezione frontale del supporto del tamburo.

Una delle caratteristiche dei revolver Ruger consiste nella realizzazione dei semilavorati per microfusione, tecnica costruttiva in cui la casa di Southport è maestra.

In generale questo processo produttivo può considerarsi una rielaborazione della tecnica scultorea artistica tipica dell’antica Grecia e trova discreto consenso in metallurgia quando si devono produrre oggetti dalle caratteristiche particolari che, anche in previsione di alti volumi produttivi, risulta non compatibile con operazioni di asportazione di truciolo da massello metallico.

Un volta definita l’essenza, la forma, dimensioni e peso del pezzo da produrre si realizza uno stampo in acciaio detto “conchiglia” che ospita, in negativo, la foggia dell’oggetto da produrre. Dentro di esso si inietta della cera , materiale adatto a realizzare i modelli da immergere in una particolare sostanza ceramica ed in vari strati di materiali refrattari in polvere.

Quando le dimensioni del “guscio” garantiscono il contenimento soddisfacente del calore e delle pressioni del metallo fuso esso viene essiccato e svuotato della cera completamente liquefatta. La fase finale prevede il riempimento dei gusci con la lega metallica prescelta allo stato liquido ed il suo raffreddamento seguito, infine, dalla rottura dei gusci ceramici.

E’ doveroso specificare che, anche in abito accademico ed industriale, esiste una polemica tra i sostenitori della microfusione ed i suoi detrattori. Senza prendere parte a tale battaglia intellettuale possiamo affermare, in piena onestà, che i prodotti Ruger sono rinomati per la propria affidabilità e robustezza.

Le canne dei revolver, a rigatura tradizionale, sono realizzate per roto-martellatura e variano da una lunghezza di 2 ½ pollici per il modello “Alaskan” ai 7 ½ del modello testato, idoneo al tiro a lunga distanza anche in ragione della presenza degli alloggi per gli anelli da mirino telescopico. La rifinitura dell’esemplare fotografato è “al bianco”, tipica dei prodotti in acciaio inossidabile.

IWI Desert Eagle Mark XIX .50 A.E.

La IWI (acronimo di Israel Weapons Industry) modello Desert Eagle Cal. .50 “Action Express” Mark XIX, che alcuni riconosceranno in ragione della occasionale presenza in ambito cinematografico e televisivo, nasce negli Stati Uniti nel 1991 e si pone, per calibro, ai vertici della produzione armiera mondiale di pistole semiautomatiche.

La prima Desert Eagle ( lett. Aquila del deserto) è dunque un’arma di concezione americana e deriva da un progetto avviato nei primi anni Ottanta dalal società Magnum Research di Minneapolis (U.S.A.). La sua produzione, avvenuta principalmente in Israele presso gli stabilimenti della IWI (ex IMI), non ha dunque alcun legame con la produzione militare ed, anzi, è sensato affermare che proprio il pubblico americano fosse l’ideale destinatario del progetto dei soci Lindig – Shildam – White.

L’uso della D.E. originale, camerata prima in .357 e poi in .44 Magnum, è infatti sovrapponibile, almeno nell’ottica del tiro sportivo, a quello dei grossi revolver da tiro alla sagoma. Lo studio dei principi di funzionamento di questa serie di armi è particolarmente interessate, soprattutto in ragione del fatto che la meccanica ricorda, in linea generale, quella dei fucili semi-automatici poiché si utilizzano le energie prodotte dall’espansione dei gas di sparo per garantire la ripetizione del tiro in modalità semi-automatica.

La costruzione si basa essenzialmente su di un telaio rigido composto da fusto e canna uniti. Il carrello ha la funzione di porta-otturatore e scorre lungo le guide ricavate sul fusto per effetto della spinta generata da un pistone pneumatico vincolato meccanicamente ad esso tramite un giunto con le due prolunghe laterali.

L’otturatore, simile nella sezione della testa a quello ideato dal progettista Eugene Stoner per il fucile Armalite AR10, è dotato di quattro alette di chiusura più quella di estrazione che aggancia il fondello della munizione camerata.

All’interno dell’otturatore si trova l’espulsore a molla, ben visibile quando il carrello dell’arma è bloccato in apertura. Un sistema a camme alloggiato all’interno di esso imprime all’otturatore una rotazione, in modo tale che la camera di scoppio sia sigillata allo sparo a causa dell’incastro delle alette nelle apposite sedi ricavate posteriormente alla camera stessa.

L’otturatore dunque scorre longitudinalmente e compie il movimento rotatorio durante l’ultimo tratto della propria corsa in avanti. L’elemento che, a prima vista, sembra essere una canna possente costituisce invece un vero e proprio gruppo funzionale ed ospita, oltre al tubo di lancio dotato di rigatura poligonale, il condotto di sfogo parziale dei gas che parte da un punto situato tra la fine della camera di sparo e il principio del tubo rigato.

Il “tunnel” si sviluppa in avanti in direzione divergente rispetto all’asse della canna e termina proprio sotto la volata, dov’è ricavata una camera di espansione dei gas entro la quale si inserisce il pistone bloccato al carrello porta-otturatore. L’arma si considera pronta allo sparo quando il carrello ha esaurito la propria corsa in avanti e la superficie di contatto tra le alette di chiusura ed i recessi che le ospitano corrisponde al grado massimo di impegno di questi vincoli meccanici di resistenza.

Allo sparo la maggior parte dei gas in espansione sospinge il proiettile in direzione della volata ma una piccola parte di essi viene prelevata e percorre il condotto del sistema gas fino a raggiungere la camera di espansione, il cui volume interno è occupato dal pistone.

Le geometrie interne di questo “circuito pneumatico” sono calcolate in modo tale da liberare, tramite il moto del carrello, le parti meccaniche vincolate (otturatore e canna) quando, per ragioni di sicurezza, i valori relativi alle pressioni interne sono al di sotto di un certo valore.

Il pistone dunque, accumulata una certa spinta, trasmette questa sul carrello porta-otturatore facendolo arretrare.
Quando il proiettile è uscito dalla canna ed i gas di sparo sono in parte esauriti, il movimento del carrello-otturatore fa ruotare finalmente la testa otturatrice e svincola le alette dalla culatta. Il gruppo otturatore comincia una corsa retrograda, che prosegue fino a compiere le operazioni di estrazione ed armamento del cane esterno. Il punto massimo di arretramento del carrello corrisponde anche a quello di massima compressione di due molle di recupero poste sotto la canna, che estendendosi lo riportano in avanti a camerare il nuovo colpo ed attuare la chiusura geometrica.

Lo scatto della D.E., in singola azione, si basa sull’azionamento di un meccanismo di percussione a cane esterno, armato manualmente agendo sulla cresta oppure per effetto dello scorrimento del carrello che, con la propria massa, lo costringe a basculare comprimendo la molla di scatto ed intercettando il contro-cane che lo blocca in tensione.

L’azionamento del grilletto è studiato in modo da suddividere la manovra di scatto in due tempi: il primo è caratterizzato da un valore minimo e costante di resistenza alla trazione; nel secondo tempo lo sforzo aumenta progressivamente fino allo sgancio. Il sistema di regolazione, inizialmente costituiva un dispositivo opzionale chiamato ATF (lett. Adjustable Trigger Mechanism), permette di stabilire, lungo l’intera corsa del grilletto, il punto in cui si passa dal primo al secondo tempo. Come i grossi revolver da caccia e da tiro anche la Desert Eagle è dotata di sistema di aggancio per ottiche, che in questo caso è una slitta ricavata per asportazione di truciolo dal gruppo canna.

La prova a fuoco

La nostra prova a fuoco è stata condotta a Gardone V.T., dove la dirigenza del TSN Locale ci ha messo a disposizione una delle due linee di tiro fino a 150 metri.

Il balipedio, in questo caso, ci ha da un lato permesso di svolgere il nostro esperimento in condizioni di assoluta sicurezza; dall’altro di utilizzare bancone e supporto, fondamentali accessori per ridurre, nelle operazioni di tiro, i fattori di stress dovuti all’affaticamento muscolare.

Entrambe le pistole, pur dotate di alloggio per sistemi di puntamento lenticolari, sono state utilizzate avvalendoci dell’ausilio delle mire di serie, cioè tacca e mirino metallici. Le munizioni erano invece differenti tra loro nel senso che mentre per la Desert Eagle è stata adottata la ricarica casalinga, per la Super Red Hawk la Fiocchi Munizioni di Lecco ci ha fornito una confezione di cartucce commerciali con palla tronco-conica in piombo ramato da 240 grn di peso.

Si tratta del prodotto della linea ”classic” (codice commerciale 70 0445), con palla SJSP, acronimo di “Semi Jacketed Soft Point”, cioè “a punta soffice semi-blindata”.
L’equipe di prova ha dunque adottato una tecnica di tiro che, in Italia, si vede spesso praticare dagli appassionati del tiro con carabina: arma in appoggio su rest e tiri meditati.

L’esperimento effettuato, premesso che gli organi di mira non sono stati registrati, si è così concluso con la piena soddisfazione dei partecipanti: tutti i colpi del caricatore in sagoma (dopo una rosata di aggiustamento) per la Desert Eagle e sei colpi in un’area di circa 25cm per la Ruger, nonostante in entrambi i casi il mirino coprisse completamente le sagome dei bersagli posti a 150m.

L’epilogo di questa pacifica comparativa ci ha spinti però a riflettere su di un fatto: molti poligoni opportunamente attrezzati potrebbero – ricavandone oltretutto un certo guadagno – ben sfruttare una parte dei propri impianti per la pratica del tiro con pistola a lunga distanza. In tal modo buona parte dei possessori di armi sportivi simili a quelle utilizzate sarebbero senza dubbio in grado di ottenere risultati entusiasmanti.

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