ARMI DI PLASTICA? (PARTE PRIMA)
Uno dei nostri primi reportage, apparsi tanti anni fa sulle riviste Tecnologia e Difesa e Armi e Munizioni. La cosiddetta rivoluzione della plastica era già cominciata da tempo, Glock e HK G36 circolavano da anni e, da noi, si guardava a tutto questo con un misto di sospetto e fede. Sospetto poichè per qualcuno le armi con componenti in polimero altro non erano che giocatoli; fede poichè qualcun altro riteneva che il futuro della costruzione armiera avesse trovato una nuova, definitiva via. A distanza di circa un decennio da allora si possono fare determinate valutazioni, trarre delle conclusioni sulla stagione passata ma, riteniamo, una cosa rimane buona del nostro vecchio lavoro: la spiegazione, semplice, di come si è arrivati a concepire dei prodotti armieri con parti, anche fondamentali, in polimero e quali siano i criteri di base per produrre e commercializzare queste realizzazioni. Lasciamo il testo com’era, con tutti i suoi difetti. Buona lettura!
di G.Tansella
I sostenitori ne apprezzano doti quali la leggerezza e la resistenza all’ossidazione; i detrattori lanciano accuse riguardanti il fascino estetico poco elegante e l’inadeguatezza del peso quale massa bilanciante durante l’atto di sparo. La realtà tuttavia non si può disconoscere: l’impiego di materiale plastico nella produzione armiera è sempre più diffuso.
Consideriamo, a prova di quanto affermato, alcuni cataloghi tra quelli pubblicati dalle maggiori aziende armiere….troveremo in quasi tutti i casi la presentazione di un’arma con parti in polimero.
Beretta APX (in collaborazione con A.Carparelli)
Persino i revolvers, categoria di armi dal disegno e dalla destinazione d’uso particolari, sono ormai in gran parte commercializzati con impugnature in gomma sintetica o plastica. Una novità? Assolutamente no…lo sanno anche i nostri nonni: alcuni, tra coloro che trascorsero la gioventù durante l’ultima guerra, ricordano le luccicanti guancette di alcune P38 tedesche: si trattava, allora, della c.d. bachelite ed il fatto testimonia un “curriculum vitae” di tutto rispetto per le materie plastiche quali componenti essenziali delle armi, da fuoco e non. Dopo le P38, abbiamo visto i polimeri usati in abbondanza sui “Black Rifle” delle truppe USA in Vietnam , più recentemente sugli Steyr AUG austriaci e, finalmente, anche sui nostrani ARX Beretta. Per chi si domanda quale sia stata la ragione che ha spinto i progettisti d’armi leggere ad utilizzare la plastica la risposta è piuttosto articolata. Fin dalle origini le armi da fuoco individuali son state prodotte utilizzando il metallo per gli elementi direttamente interessati nella dinamica di sparo ed il legno per le calciature (ispirandosi alle teniere delle balestre sia per quanto riguarda le armi lunghe che le armi corte).
Riproduzione a marchio Davide Pedersoli del fucile di precisione Gibbs (metà del XIX° secolo): l’esercito italiano ha dotato, fino agli anni Novanta del XX° secolo, le proprie truppe di armi (BM59) costruite con gli stessi materiali degli archibugi, acciaio e legno.
Le cause di questa scelta son radicate negli studi relativi all’arte della guerra ed alla definizione del fante come di un guerriero appiedato le cui manovre, nell’accezione più ristretta, non superano la sfera individuale. Le armi del fante devono dunque per definizione poter essere gestite dal singolo uomo e, di conseguenza, essere concepite in relazione al corpo umano.
Qual è il segreto per garantire che un combattente svolga un’opera efficiente e che questa si possa protrarre il più a lungo possibile nel tempo? Per prima cosa occorre dotarlo di uno strumento mortalmente insidioso ed affidabile. In secondo luogo sarà necessario evitare che l’utilizzo di tale strumento risulti eccessivamente faticoso. Dopo l’avvento delle armi a tiro rapido si è cercato in particolare, diminuendo il peso dell’arma, di incrementare la dotazione individuale di munizioni, anche queste più leggere (ricordiamo, in questo senso, uno dei vantaggi attribuiti al passaggio, in ambito NATO, dalla munizione M59 7,62 x 51 alla M193 5,56 x 45). La ricerca della leggerezza ispira dunque l’attuale orientamento tecnologico armiero. Lo abbiamo visto nel caso delle armi corte con le Walther P1 con fusto in Avional prima e nelle Glock con fusto in plastica dopo; nel caso delle armi lunghe dagli M16A1 fino ad arrivare ai vari G36, SCAR, ARX etc; nelle armi in configurazione bullpup dal francese FA-MAS all’israeliano TAVOR.
La produzione delle SMG Beretta serie PM12 è cessata nel 2007: pesa, scarica, circa 3,5kg. La PMX, che l’ha sostituita, pesa oltre 1kg in meno.
Come nascono quindi, in modo specifico, i polimeri con cui si costruiscono importantissimi elementi delle armi leggere? In un ambito che non ha direttamente a che fare con l’ars militaris e si inquadra, a grandi linee, nella ricerca di materiali sintetici con cui realizzare svariati manufatti in mancanza di determinate materie prime.
La storia della materia plastica risale al sec. XIX (lo stesso termine “plastica” è assai generico e deriva da un aggettivo riferito all’attitudine della materia ad assumere, in determinate condizioni, varia consistenza e molteplici forme) ma la bachelite in particolare, inventata negli USA nel 1906, detiene il primato storico nel campo dei polimeri in ragione della propria struttura molecolare di resina fenolica ottenuta artificialmente. E’ infatti al campo chimico che occorre guardare per comprendere i segreti di uno dei materiali in assoluto più utilizzati. Cos’è dunque la plastica? Semplice: un composto organico i cui elementi principali sono indicativamente il carbone, il sale, il gas ed il petrolio.
All’origine della materia c’è dunque la lavorazione del greggio mediante la c.d “distillazione frazionata”. Questa, utilizzando il calore o dei catalizzatori, permette di ottenere miscele di composti caratterizzati dal comune punto di ebollizione. Un esempio: la benzina si scinde riscaldando il greggio a circa 110°C mentre il gasolio richiede un incremento di temperatura di altri 230°C. Il successivo trattamento di “cracking” (lett. “di rottura”) permette di “rompere” le catene molecolari degli idrocarburi ed ottenere dei monomeri: generalmente si parla di etilene, propilene, butadiene e stirene.
A questo punto si usa distinguere due processi a seconda del materiale plastico da produrre.
Mediante la policondensazione i monomeri vengono uniti tra loro grazie ad una reazione chimica. Si ottiene mediante questo procedimento, per esempio, il diffusissimo PET e gli scarti della sua lavorazione sono l’acqua ed il metanolo; con il procedimento di polimerizzazione i monomeri distinti vengono invece riaccorpati e legati a seconda delle esigenze di produzione.
La principale distinzione tra materie plastiche in genere riguarda le c.d. Termoplastiche e i Termoindurenti.
Le prime sono modificate dal calore nella forma ma non nella struttura molecolare: portandole ad una certa temperatura sarà dunque possibile rimodellarle. Tra le termoplastiche più usate ci sono senza dubbio i poliammidi, prodotti dalla reazione chimica tra diammide e acidi bibasici o tra i lattami e gli amminoacidi. Un esempio di un celebre poliammide? Il Nylon (PA)…
I Termoindurenti invece,come il Teflon, le resine ed i poliesteri insaturi, subiscono con il calore una modifica irreversibile della struttura biochimica ed è impossibile, una volta raffreddati, procedere con un nuovo ciclo di termoformatura.
Prima di essere lavorata la materia plastica si presenta in quattro diverse sembianze: polvere, granuli, liquido o soluzione.
Saranno poi il calore (tra i 150° e i 200°) e la pressione a renderla duttile e idonea ad essere plasmata secondo le più diverse esigenze.
I metodi di lavorazione più usati sono quattro. La c.d. Calandratura serve a produrre fogli e laminati: si usa dunque comprimere il polimero riscaldato mediante dei rulli e riportarlo a temperatura ambiente dopo il trattamento.
Con la c.d. Estrusione si producono invece barre o tubi di materiale: il polimero riscaldato, per mezzo di un meccanismo a “vite senza fine”, passa attraverso un ugello che funge da stampo e poi tagliato alla lunghezza desiderata.
Con il c.d. Soffiaggio si utilizzano invece il vapore e l’aria compressa per far aderire il materiale plastico sottile alle pareti di uno stampo: si producono così, ad esempio, le bottiglie di plastica per uso alimentare.
L’ultimo metodo, importante per noi olplofili, è lo Stampaggio: in generale il polimero viene fuso, fatto aderire allo stampo e raffreddato ma, nello specifico, esistono procedimenti diversi.